Fare cultura nella classe di italiano L2: due esempi concreti, due tipologie di classi, due esperienze
Qualche tempo fa ho accennato in un articolo quanto sia importante veicolare cultura durante le lezioni di lingua, perché la narrazione di sé e del vissuto culturale nel Paese d’origine dei nostri studenti e il confronto con quanto sperimentato in Italia è uno dei modi che creano coinvolgimento in aula, abbassando il filtro affettivo e favorendo la produzione orale, e quindi, con essa, una parte importante del processo di acquisizione di una lingua (link all’articolo qui //italianoperstranieri.loescher.it/il-dono-della-parola.n7221).
In questa riflessione approfondirò il tema, raccontando di due mie esperienze diametralmente opposte e in cui la cultura è stata protagonista.
Anzitutto, una precisazione: cosa intendiamo per cultura? L’etimologia ci porta al verbo latino colĕre, cioè coltivare. Tra le varie definizioni, scelgo qui di soffermarmi su questa: “in etnologia, sociologia e antropologia culturale, l’insieme dei valori, simboli, concezioni, credenze, modelli di comportamento, e anche delle attività materiali, che caratterizzano il modo di vita di un gruppo sociale”.[1] Io credo che, in linea con quel verbo da cui prende le mosse, la cultura sia tutto ciò che fa crescere. Questo vuol dire che tutto ciò che facciamo e vediamo fare, le parole che pronunciamo e persino i nostri pensieri sono riconducibili alla cultura in cui viviamo, e che la cultura veicola e allo stesso tempo viene veicolata dalla lingua. Quindi, un percorso linguistico non può prescindere da una presa in considerazione degli aspetti culturali della lingua insegnata.
Fatta questa premessa, è necessario però riconoscere che esistono contesti dove esplicitare l’importanza dell’aspetto culturale rischia in alcuni casi di ritorcersi come un boomerang contro l’insegnante, e di conseguenza, e questo è l’aspetto di cui davvero dobbiamo preoccuparci, contro l’efficacia della formazione.
Mi riferisco nello specifico alle situazioni di formazione in ambito aziendale, dove l’obiettivo primario dichiarato è sempre il risultato, che deve essere misurabile e verificabile (legittimo, le aziende investono nei percorsi di formazione dei collaboratori) e capita che ciò che porta connotati culturali venga percepito come ostacolo verso il raggiungimento dello stesso, una sorta di perdita di tempo, mi si passi il termine, o, se preferite, di momento decorativo che diverte tanto ma poi torniamo in fretta a ciò che ci serve davvero, per favore.
Inoltre, va sempre ricordato come la percezione dell’idea stessa di studio della lingua da parte dei soggetti coinvolti giochi un ruolo determinante. Fortemente influenzata da come la cultura di origine intenda la scuola e lo studio in generale, questa percezione viene determinata anche dal vissuto scolastico personale, dal ruolo che si attribuisce all’insegnante e da tutto ciò che lo studente ritiene essere utile o inutile perché possa imparare la lingua seconda.
Consapevole di questo, negli anni non ho modificato minimamente la mia posizione relativa all’importanza dell’insegnamento della cultura in aula. Diciamo che, in ambito aziendale, mi è servito un po’ di tempo per elaborare una strategia efficace e apprezzata.
Ciò che ha funzionato meglio, nel tempo, è stato istituire un punto cultura. Piccolo nel tempo investito e rapido nei contenuti, ma non per questo meno importante: si tratta di dedicare all’inizio di ogni lezione cinque minuti a un aspetto culturale curioso e divertente. Qualcosa come “le fettuccine Alfredo non esistono nella tradizione italiana”, oppure “sapete quanti sono i rintocchi del Campanone di Bergamo alle ore 22?”.[2]
Altre volte si può portare un’immagine e chiedere “cosa è, secondo voi?” (per esempio, l’immagine di un liutaio cremonese che intaglia il suo prossimo violino, per raccontare della tradizione liutaia di Cremona).
Brevi spunti per riflettere su tradizioni, storia, abitudini, quello che si vuole, perché l’input iniziale stimola una discussione. Bisogna aver cura di mantenere breve il punto cultura, perché è un punto, una pillola, e lascia il tempo per proseguire con tutte le attività sentite come maggiormente utili, fornendo al contempo innumerevoli possibilità di approfondimento culturale. Capita infatti che qualcuno vada a casa e si documenti per saperne di più, che qualcun altro racconti ciò che ha scoperto e torni alla lezione successiva con qualcosa da aggiungere, che qualcun altro faccia domande di approfondimento direttamente in aula. Unica avvertenza: ho felicemente sperimentato che, se mantenuto con questo spirito, il punto cultura crea dipendenza.
In altri termini, non è una buona idea interromperlo, perché quando l’ho fatto per dedicare quei cinque minuti ad altre attività, gli studenti nel tempo hanno continuato a chiedere che venisse riproposto.
Di segno completamente opposto l’esperienza che ho avuto in tempi recenti con una classe di studenti universitari. Lì non solo parlare esplicitamente di cultura è considerato parte del percorso, ma nei miei corsi ci sono moduli espressamente dedicati all’approfondimento culturale. Bene, in uno di questi moduli, che aveva per tema i luoghi imperdibili e poco noti agli stranieri in Lombardia, ho parlato del villaggio operaio, e patrimonio Unesco, di Crespi d’Adda. Se non lo conoscete, questo è il sito che lo descrive: //www.villaggiocrespi.it/
Da sempre mi dicono che quando parlo di ciò che amo la mia espressione cambia. Crespi è senza dubbio un luogo che amo molto, di cui non mi stanco mai di approfondire la conoscenza, e nelle cui vie mi piace passeggiare a tutte le ore, ma soprattutto in quelle serali, perché è un luogo silenzioso in cui si respira la storia. In inverno, quando sulle sponde dell’Adda dove il villaggio sorge si crea una foschia ovattante, è ancora meglio. Ma, al di là della mia personale digressione, ho raccontato di Crespi in aula. La risposta dei miei studenti è stata straordinaria: mi hanno chiesto se si potesse visitare. Altroché, ragazzi! E allora, timidamente ma non troppo, si è alzata la seconda domanda: andiamo insieme? Certo, che bello! Ho contattato una guida locale, spiegando chi sono e con chi volevo effettuare la visita (studenti principianti quasi assoluti), e abbiamo fissato data e ora della visita.
La nostra guida, Stefano, ci ha dapprima raccontato la storia del luogo, mostrando video che spiegavano il passaggio dall’epoca contadina a quella industriale, con tutti i vantaggi e gli svantaggi di questo passaggio per le persone che l’hanno vissuto. Poi abbiamo visitato il villaggio, e più camminavamo più i ragazzi facevano domande, e approfondivano.
Eccoci qua, in una bella foto scattata da uno dei miei studenti al nostro arrivo nel villaggio (ho coperto i loro volti per ovvie ragioni di privacy, quella al centro sono io).
Credo che il successo di questa proposta sia stato l’abbinamento del racconto in aula, una prima fase di esplorazione, scoperta e confronto (i villaggi operai sono diffusi in vari Paesi del mondo, ho scoperto) a una fase di esperienza vera, fuori dall’aula, a toccare con mano quei muri di cui avevamo parlato poco tempo prima. Ho proposto di partecipare a quella gita anche a un altro gruppo di studenti universitari con cui stavo lavorando nello stesso periodo, senza presentare il villaggio nel dettaglio ma semplicemente introducendolo velocemente durante una lezione, ma non ha riscosso lo stesso successo. Probabilmente, proprio perché era mancata la fase che i manuali definirebbero di “motivazione”, in aula.
In conclusione, credo che come sempre gli aspetti che contano siano due: il primo è avere ben chiaro il nostro obiettivo, nel mio caso parlare di cultura durante le lezioni di italiano L2. Il secondo è avere la flessibilità di adattare la proposta alle esigenze dell’aula, prendendosi anche il rischio di fare qualche errore in fase iniziale (un lavoro fatto bene non è mai completamente un errore, dopotutto) e trovare insieme alle persone con cui siamo in aula il modo migliore per presentare contenuti che, una volta trovata la chiave di introduzione migliori, vengono percepiti anche dai nostri studenti come qualcosa che fa crescere.
Nadia Fiamenghi
[1] //www.treccani.it/vocabolario/cultura/
[2] La tradizione vuole che siano 100, a ricordare quando in passato i 100 rintocchi indicavano il coprifuoco e la chiusura delle quattro porte di accesso alla Città Alta. Qualcuno in tempi recenti ha sollevato il dubbio che, attualmente, siano davvero 100. //www.ecodibergamo.it/stories/bergamo-citta/citta-alta-i-rintocchi-del-campanone-sono-veramente-cento-li-avete-contati_1239655_11/