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Materiale Didattico

Portare la bellezza in aula


Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un'arma contro la rassegnazione, la paura e l'omertà” (Peppino Impastato)

Da un po’ rifletto sugli accadimenti del nostro tempo. Sono fermamente convinta che gli insegnanti siano una categoria con un bel carico di responsabilità sulle spalle per quanto riguarda la narrazione degli eventi e l’ascolto della percezione che i nostri studenti hanno degli stessi.

Non solo. Insegnare italiano L2 a volte significa farlo in contesti difficili, e a prescindere dal fatto che si tratti di difficoltà di ordine sociale o emotivo, questo tema è tutt’altro che secondario nel già articolato processo di acquisizione linguistica.

Una delle fatiche che negli anni ho sentito più vere e più profonde per i miei studenti è quella legata all’integrazione. Lo straniero si percepisce, e si legge negli occhi degli altri, come straniero, come altro, come “che ci fai tu qui?”.

Negli anni mi sono interrogata su cosa potessi fare io, come insegnante, per dare un senso di appartenenza alle persone che ho in aula.

Indignarmi per racconti di episodi di emarginazione che sento dalla loro viva voce? Certo, ma lascia il tempo che trova.

Lanciarmi in digressioni sull’uguaglianza di tutte le persone? Non cambia la percezione descritta sopra, perché se sono in aula a fare quel mestiere è percepito come normale che io la pensi così.

Assumere atteggiamenti protettivi? Se si tratta di bambini o di persone in oggettivo pericolo forse, nel senso che bisogna sempre valutare tutti gli elementi prima di decidere se intervenire, e poi, là dove si stabilisce che intervento deve essere, questo va portato avanti nei modi e con gli strumenti giusti. Anche a nostra stessa tutela. Con adolescenti e adulti assolutamente no: quella che potrebbe a prima vista sembrare accoglienza rischia di trasformarsi in un messaggio pseudo-assistenzialista, dove si comunica che la persona non ce la può fare da sola e quindi ha bisogno del mio supporto. Insomma, la fastidiosa immagine dello “straniero poveretto” che ha sempre e comunque bisogno di aiuto.

Ammetto, senza paura di farlo, che mi è capitato in passato di fare tutte le cose che ho scritto sopra. Vale anche per noi insegnanti, il prezioso concetto di imparare dai propri errori.

Va bene, ma allora cosa possiamo fare? Ecco, credo che sia qui che entra in gioco lei, la bellezza. Possiamo portare bellezza facendo il nostro lavoro, ed è in assoluto tra i gesti più rivoluzionari che possiamo compiere, in termini didattici. In questo, negli anni, ho imparato tantissimo da colleghi e colleghe muniti di un’enorme capacità di sognare abbinata a uno straordinario senso pratico.

Elencherò ora una serie di suggerimenti concreti, praticabili ogni giorno in aula, e a costo zero o bassissimo, per fare di quel bell’ideale una realtà vissuta e condivisa, che porta lo studente a sentirsi considerato in quanto persona, e non in quanto straniero. Questo perché sono stratagemmi d’aula utilizzabili in qualsiasi contesto, e arricchiscono la proposta del sillabo che invece deve necessariamente essere ritagliata su misura per l’utente straniero (e poi dettagliata sulla base del profilo dell’apprendente)

-        Usare i colori. Non esco mai di casa senza un sacchetto che contiene 10 pennarelli di colore diverso e post-it in tonalità assortite. Normalmente li uso per i richiami visivi, come nell’esempio qui sotto

 

 

Ma il colore può anche essere un cartellone colorato, arricchito di fotografie, che richiede pochi minuti per la preparazione ma attira subito l’attenzione e crea movimento.



Questo per esempio è un cartellone che ho preparato come attività per rompere il ghiaccio all’inizio di un corso per adulti di livello B2. Lo spazio vuoto al centro è stato riempito da biglietti colorati su cui ciascuno ha scritto ciò che più l’ha stupito del nostro Paese quando è arrivato, cioè cosa ha trovato parzialmente, o molto diverso, da come se lo aspettava. La scrittura è stata effettuata dopo un momento di confronto orale a coppie.

-        Passare più tempo davanti alla cattedra che dietro. Questo è fondamentale. Stare dietro la cattedra il meno possibile per creare prossimità con i nostri studenti, passeggiare tra le sedie, dare spazio alle domande che fanno solo quando l’insegnante è a un passo da loro perché temono l’esporsi pubblicamente, ascoltare attentamente le parole di ciascuno. Come posso altrimenti far percepire integrazione in uno spazio aula dis-integrato?

-        Proporre tanto lavoro in coppia o in piccoli gruppi, cambiando spesso gli abbinamenti. In aula raramente consento a due persone provenienti dallo stesso Paese di lavorare insieme, e comunque ad ogni attività propongo un po’ di movimento facendo alzare le persone e facendole lavorare con qualcuno di nuovo. Incontrare pensieri e stili di apprendimento diversi è una delle principali fonti di ricchezza delle classi di italiano L2, e non va trascurata.

-        Trovare modi nuovi di formare le coppie e i gruppi. Ho imparato questa tecnica da una collega. Lei non si limita a dire “formate delle coppie”, ma fa pescare bigliettini da abbinare. Che si tratti di coppie di personaggi famosi da riunire (Sandra-Raimondo), di titoli di libri spezzati da ricomporre (Va’ dove-ti porta-il cuore), di elementi grammaticali da associare correttamente (Chiami tu Mario?-Sì lo chiamo io) o di lessico (camera-da letto), questa attività nell’attività diverte, arricchisce e propone una nuova modalità di revisione dei contenuti già visti, oppure ne introduce di nuovi che verranno affrontati durante la lezione.

-        Raccontare brevi aneddoti. Siamo esseri umani, raccontare di tanto in tanto aneddoti che ci piacciono, oppure brevi episodi della nostra vita, può diventare un interessante momento di scambio. Ricordo un giorno in cui ho riportato in aula una mia osservazione sulla modalità di sorveglianza attuata da una mamma di origine russa verso il figlio, al parco, modalità che percepivo differente da quella tipica delle mamme italiane (e dalla mia) e che mi aveva offerto interessanti spunti di riflessione. Ne avevo parlato in una classe di donne, e ne era nato un interessante confronto interpersonale e interculturale su come ciascuna intendesse la cura per i figli.

-        Ascoltare la musica. Ogni tanto, per il piacere di farlo, proporre in classe l’ascolto di brani musicali, non necessariamente canzoni ma anche brani strumentali.  Lavorare sulle emozioni e su ciò che quel brano evoca, e poi scrivere ciascuno la storia che, nella propria percezione, quel brano racconta. È un’attività che amo molto, e che propongo generalmente una/due volte durante i corsi, perché da un momento di apparente relax nasce uno spazio di uso libero e creativo della lingua e di libera espressione delle emozioni che si rivela arricchente per tutti.

Lo stesso percorso si può proporre gustando altre opere d’arte, per esempio i quadri.

-        Creare e donare. A mero titolo di esempio, una proposta che i miei studenti apprezzano sempre molto è quella, semplicissima eppure efficace, del ricettario interculturale. Generalmente, la proposta nasce dopo un confronto orale su quali siano i piatti tipici del Paese d’origine degli studenti. Dopo averne parlato in classe, chiedo a ciascuno di scrivere la ricetta del piatto descritto, magari corredandola con foto, e di portarla alla lezione successiva. Quando ho raccolto tutte le ricette, creo dei fascicoli (con copertina colorata, naturalmente) e ne regalo una copia a ciascuno.

In base al livello degli studenti, si può fare con qualsiasi argomento: una festa tradizionale, un luogo significativo e poco conosciuto, un personaggio importante, una data storica, il significato dei nomi degli studenti (questa è una delle mie preferite, i nomi raccontano storie straordinarie), le immagini rappresentate sul retro delle monete e delle banconote del Paese d’origine, una fiaba tradizionale e qualsiasi altro argomento che sia tema di confronto.

-        S.P.Q.R. Sorridere per qualsiasi ragione. Facile, gratuito e privo di rischio di fraintendimento: il linguaggio del sorriso è condiviso in tutto il mondo. Usiamolo senza paura, perché abbatte moltissime barriere.

-        Chiamare le persone per nome. In questo sono un po’ controcorrente, forse, perché lo faccio anche nella scuola secondaria. Scelgo il nome, e non il cognome, semplicemente perché mi dà davvero l’idea che, chiamandola per nome, sto proprio parlando con quella persona, è un segno per dire “ti riconosco, sei tu”. Questa scelta non ha mai minimamente intaccato la mia autorevolezza di insegnante, tutt’altro. Solo qualche divertito e divertente “Uh! Ti ha chiamato per nome e cognome! Fai attenzione, l’hai davvero fatta arrabbiare!”

-        Fare attenzione alla nostra gestualità, al tono di voce, e al 70% di comunicazione che effettuiamo a livello non verbale. La scienza lo dice da tempo: quello che comunichiamo dicendolo è una minima parte di quello che comunichiamo in generale. Avere cura di quel 70% dà maggiore efficacia al nostro messaggio, qualunque esso sia.

-        Evitare l’ansia da (altrui) prestazione. Capita che i nostri studenti fatichino, magari piuttosto a lungo, ad acquisire una struttura anche importante. Capita che noi, magari, pressati da incombenze, scadenze e programmi ci ritroviamo preoccupati in questo tipo di situazione. Purtroppo nella stragrande maggioranza dei casi questa preoccupazione sarà percepita anche dallo studente, che a sua volta si preoccuperà, e questo rallenterà ulteriormente il suo processo di acquisizione.

Un amico saggio, tempo fa mi ha detto: “Che tu ti preoccupi o non ti preoccupi, non cambia di una virgola come andranno le cose”. È importante mantenere un clima il più possibile rilassato, in aula. L’acquisizione linguistica è comunque un processo che richiede sforzo, fatica e tanto lavoro. Richiediamo tutto e senza paura ai nostri studenti, è necessario che facciano quella fatica per poter progredire, ma mostriamo che quella fatica non ci spaventa, perché è parte del gioco.

-        Evitare, ogni volta che è possibile, il “no”. Mi riferisco alle situazioni di errore, che sono quelle in cui più spesso capita di sentire dei “no” belli decisi.

“Io andato al supermercato”

“No! Cosa manca?”

Ecco, un no così deciso richiama subito un giudizio impietoso. Probabilmente nella nostra mente di insegnanti non assume quel significato, o non lo diciamo con quella intenzione, ma se viene corretto così ci sono buone probabilità che lo studente pensi che la sua incapacità nel formulare la frase corretta dipenda dal fatto che lui è stupido. E allora correggiamo, certo, ogni volta che serve, e facciamolo con una domanda, stimolando a riflettere, e valorizzando quel momento di riflessione. Facciamo diventare l’errore un’occasione. Un’altra mia scelta controcorrente, in linea con quanto appena scritto, è l’abolizione della penna rossa nella correzione dei compiti e delle esercitazioni scritte (la uso solo per correggere i test). La penna rossa è infatti universalmente riconosciuta come il segno di qualcosa che non va. Il colore che uso allora varia, ma l’idea è sempre una: non sto giudicando te, come persona, perché hai sbagliato, ma sto segnalando un punto su cui hai ancora del lavoro da fare. Può darsi che si tratti di una mia personale lettura del significato della penna rossa, ma correggere con altri colori rilassa me per prima. Avete mai provato?

Questi alcuni spunti tratti dal mio vissuto quotidiano.

E voi, che scelte fate per portare la bellezza in aula?
 

Nadia Fiamenghi

 

Vuoi raccontarci la tua esperienza in aula, arricchire queste considerazioni con le tue, oppure offrire nuovi spunti per la discussione? Scrivici a questo indirizzo vitadaula@loescher.it

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