Italiano per Stranieri ITALIANO PER STRANIERI
Il portale dedicato all'apprendimento della lingua italiana per studenti stranieri
ITALIANO PER STRANIERI
Il portale dedicato all'apprendimento della lingua italiana per studenti stranieri
Italiano per Stranieri

Imparo sul Web

Per accedere inserisci username e password

Se non sei registrato scopri cos'è ImparosulWeb la proposta di risorse digitali Loescher.

Se sai già cos'è ImparosulWeb puoi procedere direttamente alla registrazione tramite il seguente collegamento:
Registrati
indietro
Materiale Didattico

Quando insegnando ho imparato di più - Il bel ricordo di un'esperienza d'aula ricchissima


Oggi la mente scorre tra i ricordi, e le dita sulla tastiera battono gioiose le lettere che andranno a raccontare una storia secondo me magnifica.

Ero ai primi anni della mia esperienza come insegnante di italiano L2. Credo fosse il 2005, forse il 2006. All’epoca, lavoravo principalmente come facilitatrice linguistica. Da esperta esterna, progettavo ed erogavo percorsi di insegnamento della lingua italiana per stranieri residenti in Italia. Lavoravo sia nelle scuole, con i bambini, che nei comuni, con gli adulti. Ogni progetto che partiva per me era una scoperta, avevo ancora tutto da imparare e mi accostavo all’aula con il rispetto e la curiosità di chi ha sete di conoscere (a oggi, in questo non sono affatto cambiata).

E allora, in quel giorno di inizio primavera, ancora freddo ma con un germe di anticipo di bella stagione, mi viene presentato quel bambino. Uno scricciolo, a dire il vero. Un cucciolo d’uomo di sei anni, appena portato in Italia dai genitori, che in Italia vivevano già da qualche anno. Arrivava dal Senegal. Era davvero minuscolo e magro, e con due occhioni che raccontavano il dolore di essere stato strappato all’affetto del nonno, che lo aveva cresciuto fino a pochi giorni prima in un villaggio. Era una creatura in cerca di sicurezza, sicurezza che ha temporaneamente trovato gettandosi tra le braccia della sua maestra di italiano il giorno che me l’hanno presentato. “Ciao” gli dicevo sorridendo, e tenendo un tono di voce basso. Ma lui non mi guardava. Era rannicchiato nell’abbraccio della maestra, e da lì non si muoveva.

Ecco, tu devi insegnargli l’italiano. Però, c’è un problema, non abbiamo aule vere e proprie a disposizione, quindi dovrete stare in palestra. Mentre sorridevo e dicevo “va bene”, una parte di me si chiedeva “e adesso?”.

Primo giorno. Lui non parla. Io dico “ciao” e lo porto con me in palestra. Gli sorrido, ma non risponde sorridendo. Tecnicamente sì, ma ecco, pareva molto di circostanza. Mi guardo intorno, in quella palestra che non avevo mai visto prima: come gli insegno l’italiano, come gli insegno le competenze che gli servono a scuola? Come gli do le basi della matematica?

Vedo una palla, e poi dei birilli, e poi un’altra palla, e poi i cerchi dell’hula-hoop. E mi lascio trasportare da ciò che mi viene in mente. Dispongo i birilli come in un bowling, e impariamo a contare facendo la gara a chi ne abbatte di più. Quando i numeri da 1 a 13 non hanno più segreti, ma i birilli sono terminati, che altro fare? I canestri! Dobbiamo arrivare a 20. Poi a 30. Poi a 40. E così via fino al 100. E mentre facciamo questi giochi, lo scricciolo impaurito si trasforma in bambino divertito, scherza, lancia la palla con forza, esulta quando fa strike o quando centra il canestro.

Però, resta il grosso scoglio della scrittura.

 


I cerchi dell’hula-hoop mi regalano un’idea. Per l’incontro successivo, scrivo ciascuna lettera dell’alfabeto su un foglio A4. Armata dei miei 26 fogli (ci ho messo anche le lettere straniere), prendo i dieci cerchi che abbiamo a disposizione. Metto un foglio in ciascun cerchio, usando tanti cerchi e tanti fogli quante sono le lettere che compongono la parola su cui voglio focalizzare l’attenzione del mio studente in quel momento. Scrivi il tuo nome saltandoci dentro, lo invito. E poi di nuovo, e di nuovo ancora, finché il saltare diventa fluido perché le lettere scorrono chiare nella mente del piccolo scrittore. Ok, adesso prendi la penna e riporta su un foglio quello che hai appena “saltato”. E così si comincia. Prima il suo nome, poi le parole del cuore: “mamma” (ci è volto del tempo, con la doppia “m”, ma poi le gambe hanno capito di doversi soffermare lì un pezzettino di più), “papà”, “nonno”, la parola per lui più dolce, e poi “maestra”, e poi mi chiede “tu come ti chiami”? “Nadia”, e via, a saltellare anche il mio nome.


E poi è stato il turno della geometria. Forme geometriche create con i chiodini (ci avete giocato anche voi, da piccoli?). E insieme ci mettiamo i colori. “Facciamo un triangolo verde!” e il ragazzo dice “No, un quadrato giallo!”. Ok, quadrato giallo sia. Però dopo lo fai un triangolo, non è che lo salti solo perché è più difficile fare i lati dritti. E ridiamo.
 

 

 


Questa è una storia straordinaria. È la storia di come si può fare una bella didattica anche in assoluta povertà di mezzi “tradizionali”. È la storia di come la sicurezza, in sé e nella lingua che si impara, si acquisisce facendo. Ma è anche la storia di come il successo di quell’intervento non sarebbe stato lo stesso senza un elemento cruciale: un corpo docenti con un obiettivo condiviso.
 



E così, mentre io due giorni alla settimana saltavo, facevo canestro e abbattevo birilli insieme a quel bambino, un altro giorno era dedicato ai racconti. La scuola aveva organizzato la narrazione di fiabe con l’aiuto di un mediatore culturale per ciascun Paese rappresentato in aula (Italia compresa). Erano i bambini a scegliere le fiabe e a raccontarle nella loro lingua al resto della classe. Poi il mediatore raccontava la stessa fiaba in italiano. Poi i racconti venivano rappresentati con disegni, cartelloni… “Guarda, questa settimana tocca alla Bolivia”, mi ha detto un giorno la maestra mostrandomi l’aula allestita con oggetti tipici portati dai due bambini boliviani del gruppo. E dalle fiabe si ricostruivano insieme elementi geografici, culturali e linguistici tipici di ogni Paese.

Nel caso specifico, non si trattava tanto, o solo, di insegnare l’italiano a quel bambino lì, ma realizzare in quella scuola, 20% di bambini di origine straniera, un progetto di integrazione concreto.

Il mio intervento di facilitazione in quella classe è durato tre mesi, e si è concluso l’ultimo giorno di scuola. Ho salutato un gruppo di bambini affiatato, e un gruppo di insegnanti pure. La considero davvero, ad oggi, una delle esperienze per me più formative, a livello professionale e umano. La chiamerei “la ricchezza del fare, insieme”, che non è un appellativo che spicca per originalità, me ne rendo ben conto, ma contiene due parole che sempre dovremmo ricordarci di praticare, in classe:

Fare, contrapposto al rimuginare, all’iper-analizzare, al lamentare (a volte accade a tutti, riconosciamocelo). Fare, anche quando sembra non ci sia niente da fare. Fare, con quel che si ha, perché poi alla fine conta quel che si è.

Insieme, la didattica non è una gara. Mai. Tutti abbiamo buone idee, e la riuscita di un percorso spesso deriva dal fatto che siano diverse, e quindi possano diventare complementari. Mi causa sempre molta sofferenza sperimentare ambienti dove la tentazione è primeggiare, dove sembra si debba sempre dimostrare qualcosa. Mi causa sofferenza perché il tentativo (a volte dettato dalla necessità, ahimè) di dimostrare cozza con il tentativo del verbo menzionato sopra, fare, oppure, se credete, lo snatura, perché ne snatura gli obiettivi. E questo è un pezzo importante. Che ci venga riconosciuto o meno, che gli altri se ne accorgano o meno, la differenza, penso, sta nel modo con cui interagiamo con le altre persone coinvolte. Non ne avremo degli encomi? Possibile, sento spesso racconti di questo tipo anche da colleghi strepitosi, che di encomi ne meriterebbero a tonnellate. Ma avremo contribuito alla creazione di un certo clima, e questo andrà a vantaggio dei nostri studenti e della didattica. Un’ultima nota: insieme comprende anche gli studenti. Spesso sono loro a insegnare qualcosa a noi, come direbbe una cara amica e collega “in cambio solo di qualche lezione di italiano”, soprattutto se abbiamo la fortuna di lavorare in un ambiente multiculturale.

Questa è un’esperienza, e sono certa che ce ne siano molte altre da raccontare, tra noi insegnanti di italiano L2. Vuoi raccontare la tua? Scrivila nei commenti, oppure manda una mail a vitadaula@loescher.it


Nadia Fiamenghi

 

Ti potrebbero interessare anche


Su questo sito usiamo i cookie. Se continui a navigare, lo fai secondo le regole spiegate qui. Altrimenti puoi consultare le preferenze sui cookie e decidere quali attivare.

Personalizza Cookie

Cookie tecnici sono assolutamente essenziali per il corretto funzionamento del sito web. Questi cookie garantiscono le funzionalità di base e le caratteristiche di sicurezza del sito web.

Sempre attivi


Cookie statistici ci aiutano a capire come gli utenti interagiscono con i siti web Loescher, raccogliendo dati di navigazione in forma aggregata e anonima.

Cookie per pubblicità mirata, possono essere impostati tramite il nostro sito dai nostri partner pubblicitari. Possono essere utilizzati da queste aziende per costruire un profilo dei tuoi interessi e mostrarti annunci pertinenti su altri siti. Non memorizzano direttamente informazioni personali, ma sono basati unicamente sull'individuazione del tuo browser e del tuo dispositivo internet. Se non si accettano questi cookie, riceverai una pubblicità meno mirata.